9 dicembre 2011

Londra isolata. Ungheria, Svezia e Repubblica Ceca aprono a un ruolo attivo nei nuovi Trattati

In un primo momento, il tentativo fallito di mettere d'accordo tutti e ventisette i componenti dell'Unione europea su una riforma dei Trattati, sembrava aver creato tre gruppi di Paesi: i ventitré disponibili al "sì" nei confronti del pacchetto di misure rigoriste che dovrebbero confluire in un accordo intergovernativo (i diciassette Paesi aderenti all'Eurozona più sei "volenterosi", e cioè Danimarca, Bulgaria, Romania, Lettonia, Polonia e Lituania); i due Stati in stand-by, in attesa di consultare i rispettivi Parlamenti nazionali (Svezia e Repubblica Ceca); i due rocciosi partigiani del "no" (Regno Unito e Ungheria).
Poi Budapest ha corretto questa mappa e si è affrettata a sganciarsi da Londra, lasciando in perfetta solitudine il premier britannico David Cameron, ben deciso a non cedere e a far prevalere il rampante euroscetticismo isolano di cui sono intrisi il Regno Unito e, soprattuttto, il suo Partito conservatore. L'Ungheria si è affrettata a precisare che la sua posizione prudente e attendista non la deve far collocare a fianco dell'Inghilterra, ma più precisamente nel gruppo composto da Repubblica Ceca e Svezia.
Infatti il premier magiaro Viktor Orbán sostiene di non poter prendere in proprio decisioni che possano condurre a una rifilatura della sovranità nazionale senza aver prima sottoposto i termini dell'eventuale accordo europeo al Parlamento ungherese.
Al di là della formalità, il repentino ammorbidimento della posizione magiara sembra rispecchiare un momento di indecisione del primo ministro. Orbán, pur avendo coltivato in tutta la sua vita politica il profilo dell'"uomo forte", ha probabilmente avuto qualche dubbio nel collocare con fermezza il suo Paese – che ha soltanto dieci milioni di abitanti, ha un'economia piccola (la diciottesima per grandezza nel contesto dell'Ue) e ha recentemente chiesto assistenza finanziaria al Fondo monetario internazionale – in una posizione ultraminoritaria condivisa soltanto da Londra.
Infatti il ricorso al parere del Parlamento nazionale annunciato dall'Ungheria, al di là dell'aspetto puramente formale, non può essere particolarmente vincolante per Orbán, il cui partito conservatore Fidesz ha più di due terzi dei seggi.
In ogni caso il ministro ungherese per gli Affari europei, Enikö Györi, questa mattina, dopo aver detto che sulla posizione del suo Paese si era verificato un completo misunderstanding, ha ulteriormente zuccherato l'atteggiamento di Budapest nei confronti del pacchetto su cui si sono accordati i ventitré. «Siamo favorevoli a regole più rigide che facciano cessare le turbolenze sui mercati che colpiscono anche la nostra economia», ha detto Györi, e ha aggiunto: «Noi abbiamo l'obbligo di aderire all'euro, vogliamo aderire, ma purtroppo le nostre condizioni economiche al momento non ce lo consentono».
l'Ungheria corregge la sua posizione, la Repubblica Ceca rimane saldamente collocata nello schieramento degli attendisti, rimandando a una verifica nel proprio Parlamento la sua eventuale firma sul pacchetto di misure confezionato a Bruxelles.
Al riguardo va notato che, al di là del rispetto delle procedure formali, Praga non è nuova a resistenze nei confronti di un rafforzamento dell'Unione europea a discapito della sovranità nazionale e che il premier ceco Petr Nečas (di centrodestra come tutti i primi ministri del fronte del "no" e del "ni" all'accordo) appartiene al Partito civico democratico di cui fa parte anche il presidente della Repubblica ceca Václav Klaus, che è uno dei campionissimi dell'euroscetticismo.
Il terzo Paese che chiede tempo per potersi rivolgere al proprio Parlamento è la Svezia. Dopo la celere marcia indietro dell'Ungheria, e a eccezione del Regno Unito che ha già formulato il gran rifiuto dell'accordo, è proprio il Paese scandinavo a mostrare la posizione più intransigente.
La Svezia – che con un referendum ha deciso nel 2003 di conservare la propria moneta nazionale ma che, a differenza di Londra e Copenaghen, non ha mai ufficialmente negoziato un opt-out per rimanere fuori dall'euro – si sente estranea al pacchetto di misure deciso a Bruxelles: «Un Paese che non appartiene all'Eurozona non può ragionevolmente firmarlo», ha detto il premier Fredrik Reinfeldt.
Il capo del Governo svedese ha affermato che tutto gli sembra un po' strano visto che «l'intero testo è scritto per rendere i componenti dell'Eurozona soggetti a determinate restrizioni e per indurli a fare determinate cose». «La Svezia, che non è tra i membri dell'euro, non vuole legarsi a regole che sono confezionate su misura per l'Eurozona», ha concluso Reinfeldt.
Per comprendere meglio le perplessità di Stoccolma, va ricordato che il Paese scandinavo, anche grazie alla sua estraneità alla moneta unica europea, è riuscito a tenersi al margine della crisi economico-finanziaria che attanaglia il Vecchio continente, al punto che Anders Borg, il giovane ministro delle Finanze della Svezia, noto per il suo look ben poco tecnocratico (coda di cavallo, occhialini ovali e orecchino al lobo sinistro), è stato eletto dal Financial Times come miglior ministro economico dei Ventisette nel 2011.
E Reinfeldt conosce anche i sondaggi condotti tra i cittadini del suo Paese, che mostrano picchi inediti di euroscetticismo: in una recente inchiesta soltanto il 9,7 per cento degli svedesi si è detto favorevole all'adozione dell'euro da parte di Stoccolma.
Al termine del vertice, però, è emerso chiaramente l'isolamento di Londra. Nella Dichiarazione finale redatta dai capi di Stato o di Governo della zona euro la posizione di Ungheria, Repubblica Ceca e Svezia non è infatti separata da quella degli altri Paesi che non appartengono all'Eurozona. Il dcumento si conclude con questa frase: «I capi di Stato o di Governo di Bulgaria, Danimarca, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Ungheria hanno indicato la possibilità di partecipare a detto processo, ove appropriato previa consultazione dei rispettivi Parlamenti».